venerdì 4 settembre 2009

APPARTENENZA



Qualcosa rischiava di farmi perdere me stessa un’altra volta.
Qualcosa mi stava, ancora, un’altra volta, portando via da me stessa.
Qualcosa di insidioso, di pericoloso, qualcosa legittimato a sacro, indiscutibile, irresolubile, ineluttabile.
Mi stavo perdendo, stavolta forse, irrimediabilmente.
Perché avevo detto all’altro: “Prenditi cura di me, della mia anima”.
“No, Nessuno la toglierà dalle mie mani”… perché “Io Sono un Dio geloso”.
È mia, la mia Anima, solo di me.
Solo in me posso sentire e sapere Chi sono e cosa vuole la mia Anima.
L’avverto ora che il pericolo è evitato, è fuori di me e lo vedo, quella sarebbe stata l’irrimediabilità della perdita.

Questa È, nell’Uomo, l’in-creazione, niente è mai perduto, ciò che non diventa concretezza non esiste. In ciò che colgo come allontanamento e perdita c’è la presenza di un qualcosa di più grande e vasto, corrispondente a me stessa che si sta preparando.

Semplicemente, la morte non accade.
“Cose più grandi di me farete se soltanto crederete di poterle fare”…
… “non cose più grandi di Te, Signore, mi basta un cuore nuovo”.

Questo ho messo in dubbio.
Ho rischiato di perdere la fede in me stessa, l’evidenza e il riconoscimento del mio stesso esistere, seppur così diverso da quanto ho intorno.

Da qui l’audacia del viversi così, come si è, per quanto e quello che si È.

“Sono questa appartenenza” non come mentale, ma come cuore.
Accettare questo dolore sotterraneo, sottile, insidioso, sempre presente perché ciò che desidero è lontano dalle mie mani.
Accettare questa evidenza: il cuore sta cercando… un toccare!
Ogni volta che m’aspetto qualcosa dall’altro e so che la risposta viene solo da me stessa, qualsiasi cosa. Anche l’ascolto, la condivisione, il nutrimento, la passione, la compagnia, la cura, la fedeltà, l’esclusività, anche una situazione aderente a me o della quale ho bisogno: vanno ricreati dentro me attingendo a questo grande Vuoto/Pieno che sono e che sento.
Qualsiasi cosa va, innanzitutto, risolta, riempita tra me e me stessa. Quando starò bene con me stessa, per tutto quanto io sono, la situazione sarà bene anche fuori di me.
Anche la morte: non c’è la perdita di una persona, c’è il viversi già in un’altra modalità di relazione.

C. Tonarelli: “Per scoprire la verità e sconfiggere la paura, l’insicurezza nell’ascoltare il proprio io interiore, è necessario il silenzio; non si può sentire la voce interiore se si è occupati a parlare”.
Appartenenza… dirmelo: “Noi due ora, comunque, ci apparteniamo”. Dirlo a me stessa che l’altro… lo sento e lo penso talmente tanto che sicuramente mi appartiene e questa consapevolezza sbaraglia tutte le mie paure e la necessità di verificarne all’esterno la presenza. Così per le situazioni, per ciò che voglio dalla vita.
L’appartenenza permessa, riconosciuta, accolta finalmente, permette il lasciar andare mentre mi permette di prendere e vivere le situazioni che si presentano con serenità.
Solo quando l’ho posseduta una cosa o una persona e mi sono posseduta in lei, posso lasciarla andare e lasciarmi andare oltre lei.
Perché è un lasciar andare in situazione, contestualizzato, esperito, ove io sono, comunque sono, come “cuore”.
Bisogna prendere le cose, sentirle proprie.
Le cose, ossia: se stessi, persone, situazioni, sentimenti.
“Sono qui per me, solo per me”.
“Sei qui per me, solo per me”.
Volerselo questo grande incondizionato bene da sentire il mondo dedicato a sé.
Perché le energie stanno nelle cose.
Bisogna avere il coraggio, che in fondo è la semplice evidenza, di chiamare le cose con il loro nome e riconoscere che si vuole quella e solo quella cosa.
Essere bambini.
Autenticità.
Permetterseli tutti, dentro se stessi, i propri desideri, sentimenti e pensieri.
Uscire dalle rimozioni, dalle alienazioni, dalle involuzioni, dalle pseudo-perfezioni.

LA PRIMA APPARTENENZA DA RICONOSCERE È L’APPARTENENZA A SE STESSI.

Me stessa è: me, il fuori di me e il mondo attorno a me ma li sento miei, appartenenti, quando li ri-conduco in me.
Solo se prima sento e riconosco una Parte di me, innanzitutto come emozione, desiderio, tensione e decido di concedermela, regalarmela, darla a me stessa, prenderla da me stessa (nel mio mondo interiore) allora la trovo fuori di me e, quel qualcosa/qualcuno cui corrisponde, mi permette di compiere l’integrazione a me stessa.
Facendo entrare qualcosa/qualcuno nel mio mondo interiore non faccio altro che dare una cosa di me a me stessa, qualcosa/qualcuno che ho fatto precedentemente germogliare in me.

Il primo universo che incontro fuori di me, sono io, innanzitutto il mio corpo fisico, i miei corpi, le mie intelligenze, i miei modi di essere e di amare (di tutto questo spesso non si è consapevoli). Poi incontro me stessa, a specchio, in modi di essere affini, complementari o corrispondenti ai miei. In più incontro diversità scomode, ciò che mi sembra di non essere, atteggiamenti in cui non mi riconosco. Come mai interagiscono con me? Mi disturbano e m’infastidiscono, mi sembrano nemici. Perché mi stanno di fronte? Cosa sono queste interazioni oltre la realtà illusoria dell’essere conflittuali?... forse parti di me che non vedo o non voglio vedere, ma sono.
Appartenenza…
Ancora, alcuni specchi che ho davanti sono stata, ma non voglio più essere così, ora mi posso distinguere: “Non sono…”.
Ancora incontro altri, diversi da me: le sorprese, le imprevedibilità, le novità, le diversità, ciò che non sono, che non sento o non so, mi manca, cerco, aspetto, che viene… che non viene ancora.

Ora comincio a distinguere: appartengo al Tutto, non tutto m’appartiene, non tutti mi sono affini o voglio sul mio cammino.
Lascio andare. Altri li accolgo e confermo.
Attorno a me mille universi, paralleli, tangenti, secanti, danzano.
Spesso interagiamo.
Giochiamo.

Ci sono livelli di amore per se stessi che sono irrinunciabili e che sbaragliano tutti i falsi amori per gli altri.
Sono quelli che cambiano il mondo, innanzitutto il mio mondo.
Fuori da tutte le paure, e gli scrupoli di far soffrire gli altri sono falsi, con essi siamo maschera.

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